L’uomo che visse due volte
Che cos’è l’identità?
L’identità può essere definita come la consapevolezza che ogni individuo ha di se stesso come essere vivente e pensante separato dagli altri; essa è ciò che gli conferisce il senso di appartenenza dei suoi pensieri, delle sue emozioni e delle sue sensazioni, quindi è strettamente legata alla sua personalità. Ma è anche molto di più: l’identità conferisce ad ognuno di noi quel senso di continuità e coerenza nel tempo, quel nostro rimanere sempre gli stessi malgrado i cambiamenti dell’ambiente. Questa immagine di noi ci viene poi riconfermata anche dalle nostre relazioni, che ci riconfermano chi e come siamo con le loro attitudini e i loro comportamenti verso di noi. La nostra personalità infatti è quello che ci rende “prevedibili”, sia a noi stessi che agli altri. E` proprio questo che ci ha permesso di poter vivere in un universo intersoggettivo, di poter costruire cooperazione sociale e costellazioni di relazioni sempre più complesse che ci hanno permesso di sopravvivere ai predatori e ai pericoli. Questo può essere ovviamente sia un bene che un male; è un male quando soffriamo di un disturbo psichico o di una nevrosi che ci imprigiona: non è così facile “uscire da se stessi” e diventare qualcun altro, superare le nostre angosce, le nostre debolezze, le nostre paure, anche se certo, con il dovuto aiuto, è possibile cambiare; ma dobbiamo essere in grado di guardare alla nostra identità e riconoscere chi siamo, in maniera consapevole.
Come costruiamo la nostra identità?
Gli esseri umani, seppur appartenenti alla stessa specie di mammiferi, dimostrano tra loro profonde differenze individuali. Ognuno presenta scelte di comportamento, attitudini, pensieri e preferenze molto diversi. I moderni Psicologi e Neuroscienziati da cui nasce la corrente del cognitivismo postrazionalista, hanno prodotto numerosi studi empirici a dimostrazione del primato delle emozioni sulla razionalità nel processo di sviluppo dell’identità. Prima che un essere “razionale”, l’uomo è un essere “emotivo”. Questo perché l’ontogenesi stessa del cervello umano avviene per stadi di sviluppo e, come meglio illustrato in un mio precedente articolo, il cervello emotivo si sviluppa nell’uomo prima della corteccia cognitiva.
Pertanto, l’emozione agisce ad un livello più immediato ed istintivo della ragione, valutando il significato positivo o negativo di una certa esperienza già molto prima che l’individuo impari a parlare e a ragionare: queste prime esperienze fanno parte della memoria tacita dell’individuo, ossia quella memoria inaccessibile alla sua coscienza perché costruita negli anni in cui egli non era in grado di ragionare consapevolmente. La colorazione emotiva delle primissime esperienze infantili sarà la quindi la rudimentale impalcatura a sostegno della sua identità futura, forgiandone attivamente i suoi strumenti di percezione e valutazione della realtà. Questo perché man mano che l’individuo cresce, tutte le sue esperienze saranno paragonate inconsciamente o consciamente alle precedenti, al fine di classificarle e registrarle come desiderabili o meno, positive o negative: “mi appartengono o non mi appartengono”, “le riconosco o non le riconosco”. È così che egli rimane sempre coerente e uguale a se stesso, riconfermando ogni giorno chi è a se stesso e agli altri. Da qui possiamo spiegare il profondo, inscindibile legame che lega memoria, emozioni e identità.
Si può fuggire dalla propria identità?
In uno dei suoi più grandi capolavori, “il Fu Mattia Pascal”, Luigi Pirandello esplora attraverso la narrativa un tema già così dibattuto ai primi del Novecento: che cos’è l’identità. Il protagonista del romanzo approfitta di un equivoco sulla sua morte per inseguire una nuova vita, la promessa di una libertà assoluta, la possibilità di rinascere come qualcun altro, libero da qualsiasi vincolo a cui si sentiva legato dalla sua identità precedente. Alla fine del suo lungo viaggio, Mattia Pascal si rende conto tuttavia dell’impossibilità del suo progetto e decide di tornare al punto di partenza. Il romanzo illustra magistralmente come non sia possibile sfuggire alla propria identità: non si può mai smettere di essere ciò che si è, per quanto ci sforziamo di camuffarci agli occhi degli altri. L’identità è un qualcosa che ci rimane cucito addosso per tutta la vita.
Oppure no……
Il dottor Pierdante Piccioni e la sua seconda vita
Nel marzo del 2020, proprio poche settimane prima dello scoppio della pandemia del Coronavirus, Rai Uno trasmette le prime puntate della fiction “Doc, nelle tue mani”. Il protagonista, che nella serie si chiama Andrea Fanti, è un celebre primario di un prestigioso ospedale in cui lavora da anni. La sua vita viene sconvolta nel momento in cui il padre di un paziente deceduto gli spara, colpendolo alla testa. Il dottor Fanti va in coma e al suo risveglio si scopre che ha completamente rimosso dalla coscienza i dieci anni precedenti all’incidente. Oltre alle notevoli conseguenze nelle sue relazioni interpersonali (aveva divorziato da anni dalla moglie ma, avendo completamente rimosso il ricordo della separazione e i suoi motivi, se ne sentiva ancora profondamente innamorato), il dottor Fanti sembra aver radicalmente cambiato la sua personalità: nessuno riconosce più il dottor Fanti che avevano conosciuto fino a prima dell’incidente. Da cinico opportunista, insensibile e carrierista, il dottor Fanti si risveglia profondamente sensibile, empatico e attento ai bisogni degli altri. Non è più minimamente interessato alla sua carriera, ma inizia a svolgere la sua professione dal basso (avendo naturalmente anche dimenticato 10 anni di conoscenze della medicina moderna) con estrema umiltà e abnegazione per i suoi pazienti. Ricomincia pian piano ad essere felice.
Malgrado questa possa sembrare la tipica storia romanzata “da fiction”, è tutto vero. Lo “smemorato” dottor Andrea Fanti si chiama in realtà Pierdante Piccioni, ex primario del Pronto Soccorso dell’ospedale di Lodi, attualmente primario del Pronto Soccorso di Codogno. Il dottor Piccioni ha subito un grave incidente d’auto il 31 maggio del 2013 a seguito del quale è caduto in coma per sei ore. Al suo risveglio, non ricordava più gli ultimi 12 anni della sua vita. Proprio come il protagonista della serie televisiva, il dottor Piccioni è oggi un altro uomo. Purtroppo, i suoi 12 anni di ricordi non li ha mai più recuperati. Sia lui che la sua famiglia ed i suoi amici hanno fatto molta fatica ad abituarsi al nuovo Pierdante, che molto ha riflettuto sul dramma e sul significato di quanto gli è successo. In una delle sue toccanti interviste, il dottor Piccioni spiega come, pur avendo ormai recuperato la conoscenza “enciclopedica” di dei 12 anni di ricordi irreparabilmente rimossi attraverso i racconti puntuali dei suoi familiari e le fotografie, questi non potranno mai più avere la stessa incisività sulla sua personalità, proprio perché sono per lui semplici “fatti”, privi di emozioni. Sono le emozioni che ci fanno interiorizzare i ricordi, che ce li fanno sentire “nostri” e ci permettono di continuare a confermare la continuità della nostra identità seppur nel suo continuo fluire e “divenire”.