Sicurezza e libertà – due principi antitetici in una relazione?
Una radice comune al malessere esistenziale di molti pazienti è il conflitto tra il desiderio di libertà e il profondo bisogno di mantenere il senso di sicurezza e stabilità garantito dalla situazione attuale, in cui tutto è prevedibile e immutabile.
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Una polarità tra due bisogni primari apparentemente inconciliabili, responsabile di quell’ oscillazione tra lo sperimentare una stessa relazione come oppressiva e al tempo stesso confortante. A causa di questa mancanza di consapevolezza e di piena comprensione di se stessi, ci si sente spesso come immobilizzati, incapaci di porre fine ad una relazione disfunzionale, oppure di farla evolvere verso un livello più maturo. In alcuni casi, l’attribuzione esclusivamente all’altro di questo malessere ci allontana dal leggere ad un livello più profondo il reale significato di questo disagio. In che modo ci relazioniamo all’altro? Perché? Quali sono le motivazioni apparenti e quelle più profonde del nostro malessere?
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Paura e coraggio
Molti dei miei pazienti riportano la loro insoddisfazione all’interno della loro relazione: “vorrei poter uscire liberamente coi miei amici quando ne ho voglia”, oppure:” vorrei poter tornare a casa tardi quando voglio, senza dovermi sempre giustificare”. L’insoddisfazione e il senso di vuoto che avvertono nella loro vita vengono ricondotti al fatto di non poter uscire quando si vuole. Ma questa è solo la superficie, piccole insoddisfazioni che crediamo essere l’unica radice del malessere, la cui responsabilità è proiettata esclusivamente all’esterno.
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Il desiderio di autonomia e di libertà sono intrinseci nell’essere umano. Tuttavia, la precarietà del mondo moderno, le continue sfide per rimanere a galla nella “global economy”, hanno reso molto difficile il potersi affermare per ciò che veramente si è. Le leggi dell’economia d’altronde non rispettano il diritto all’individualità. Oltre a ciò, ogni cultura è ricca di luoghi comuni e convenzioni sociali che agiscono da veri e propri “filtri” sulla libertà di espressione e di scelta percepita da ciascuno più di quanto si immagini. Non in ultimo, il modello genitoriale avuto da piccoli incide enormemente sulla capacità di credere nelle proprie capacità, nel concedersi il coraggio per affermare la propria autonomia, nel non essere sempre d’accordo con gli altri, se non anche, a volte, concedersi di sbagliare. Un’attitudine iperprotettiva dei genitori, ad esempio, volta all’ evitamento di tutte le situazioni di frustrazione o di possibile difficoltà, non fa mai sperimentare all’individuo la propria competenza nel risolvere le situazioni autonomamente. Inoltre, l’abitudine alla totale mancanza di frustrazioni rende molto difficile e spaventoso il pensiero di doverne fronteggiare in futuro. Tutto ciò scoraggia il desiderio di esplorare da soli i propri confini, relegando l’individuo entro un piccolo spazio di sicurezza, dove la luce della libertà arriva però a fatica.
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Se non abbiamo ben chiaro questi meccanismi che muovono incessantemente i loro ingranaggi sotto ai nostri piedi, rischiamo di perdere di vista il reale problema.
Ma che cos’è davvero l’autonomia?
L’autodeterminazione è un processo graduale che inizia fin dall’infanzia e continua per tutta la vita. Questo processo è quello che sottende alla definizione dell’immagine di Sé. Quando si è bambini, le figure genitoriali impongono regole educative, culturali e comportamentali per permettere l’integrazione nella società. In questa fase, non sono infrequenti ammonimenti dei genitori come: “non essere polemico, quanto sei testardo, non essere insistente, se ti dico così è così, non discutere… “; Da questi condizionamenti esterni si dovrebbe riuscire gradualmente a prendere le distanze a partire dall’ adolescenza, fase in cui l’individuo diventa più autonomo nello scegliere cosa seguire e cosa no, in cui raggiunge la piena differenziazione di se stesso. Eppure, molto spesso ciò non avviene, questo processo si inceppa in qualche modo continuando a far sentire al soggetto il forte bisogno del giudizio, dell’approvazione e della guida di qualcun altro per autodefinirsi. È da quel “qualcun altro” che dipende il suo senso di sicurezza.
Consegnando nelle mani di qualcun altro il nostro “sense of agency”, ossia la consapevolezza di poter agire ed apportare dei cambiamenti alla propria vita in maniera autonoma, cadiamo nella dolce trappola di una sicurezza effimera, solo apparentemente solida ed eterna, ma che in realtà si poggia sul fragile specchio delle nostre proiezioni. Proiezioni dei nostri desideri, convinti di aver trovato qualcuno garante della nostra salvezza, capace di salvarci dalla nostra incompetenza ed inadeguatezza, dall’incertezza del futuro in questo mondo minaccioso. Qualcuno che abbiamo idealizzato a nostro uso e consumo, investendolo di responsabilità e qualità soprannaturali che forse non completamente gli appartengono, destinate però purtroppo a sciogliersi al primo sole.
È possibile recuperare quel processo: riprendere in mano il punto in cui il gomitolo della vita dove si è aggrovigliato per sbrogliare la matassa, per conferire un significato nuovo, più profondo alla propria esistenza attraverso l’affermazione della propria identità e del significato che per ognuno di noi ha il coraggio.
Dott.ssa Michela Arnò – Psicologa Clinica dell’Adulto e Adolescente
<<Per una donna a volte è più facile affidare la propria vita ad un uomo anziché inventarsene una propria>> – Massimiliano Recalcati