Vorrei tanto cambiare, però non vorrei dover cambiare…
È questo il dilemma di molti miei pazienti che entrano nel mio studio portando un problema.
Talvolta, pur vivendo situazioni ai limiti della sofferenza psichica, la resistenza al cambiamento di alcuni pazienti è più forte del loro desiderio di uscirne. Questo perché in realtà, il cambiamento può essere percepito come spaventoso, faticoso, come uno sforzo necessario a modificare lo status quo che, seppur non li rende felici, almeno va avanti spontaneamente senza bisogno di alcuna azione.
Lo status quo è una condizione che ci è familiare, in cui si sa cosa succederà, tutto è prevedibile, anche se non sempre piacevole.
Il primo ostacolo da superare per il clinico è smascherare l’avversione: nella quasi totalità dei casi, infatti, l’avversione è abilmente camuffata dai pazienti in “impossibilità” causata da fattori esterni, apparentemente del tutto al di fuori del loro controllo. Per questo ogni tentativo di proporre nuove soluzioni, oppure di considerare l’apertura a nuove possibilità, viene sistematicamente bloccato da risposte stereotipate come: <<ma tanto anche lo facessi, comunque poi lui…>>, <<sì ma, anche fosse così facile, alla fine poi lei comunque…>>, <<sì, ma sarebbe lo stesso inutile, perché tanto poi loro/lui/lei…>>….
Perché è così difficile cambiare?
Il “non agire”, il non cambiare niente, è molto più comodo dell’affrontare l’incertezza di quello che invece potrebbe succedere di diverso. La nuova situazione potrebbe richiedere un cambiamento di come percepiamo noi stessi, oltre che il mondo: lo scoprirsi meno arrabbiati, meno spaventati, o meno delusi, proprio perché la giustificazione per esserlo potrebbe venire a mancare. Se non possiamo più sentirci come ci sentivamo prima allora, come dovremmo sentirci? Quando si è abituati a provare determinate emozioni in maniera prevalente, anche quelle negative, queste diventano parte integrante della nostra identità, quella in cui ci riconosciamo. Il lasciare andare pezzi della nostra identità, magari sostituendoli con altri nuovi, che non ci sono familiari, non è affatto un percorso facile.
Per di più, il cambiamento potrebbe richiedere molto spesso la rinuncia a qualcosa: una situazione, un’abitudine, una relazione. Un cambiamento può voler dire “lasciare andare” qualcosa o qualcuno.
Per quanto dannose queste abitudini, persone o situazioni possano essere, alcuni soggetti sperimentano una vera e propria avversione nel doversene separare. Questo perché esse sono state presenti nella loro vita per così tanto tempo, che la loro potenziale assenza genera paura: la paura del vuoto, la paura di restare soli con se stessi, oppure la paura di non aver più giustificazioni per continuare a restare come o dove si è: “se non fosse per te, avrei lasciato tuo padre già da molto tempo”; “se non dovessi stare con lei, avrei già cambiato vita”; “se non dovessi lavorare tutte queste ore di straordinario, allora sì che avrei tempo per laurearmi”; Quanti se… ci sono nella vita di ognuno? Quanti di questi hanno davvero ragione di esistere?
sentire lo sforzo
Aprire le porte al cambiamento richiede sforzo: non può esserci cambiamento senza sforzo, non si può avviare un cambiamento senza cambiare nulla. Ecco perché il trattamento psicologico è un impegno condiviso dallo Psicologo e dal paziente, ed è un percorso che può essere a volte anche doloroso, ma di un dolore che ci fa crescere.
Il cambiamento genera nuovi pensieri, emozioni ed esperienze, supportati dallo sviluppo di nuovi pattern e connessioni neuronali che si formano nel nostro cervello. Questo amplia la nostra capacità di essere flessibili, di pensare nuove soluzioni, di riconoscere nuove e più complesse sfaccettature nel mondo esterno. Non è mai troppo tardi per cambiare, scoprire orizzonti nuovi in se stessi e negli altri.
Indipendentemente da come reagiranno gli altri al nostro cambiamento (anche se a volte le reazioni che si innescano potrebbero davvero essere sorprendenti), esso è comunque una crescita personale: non si intraprende un percorso di terapia per riuscire a cambiare gli altri, ma per cambiare prima di tutto noi stessi, per essere migliori di quello che si è, non identici a prima. Per questo non è importante tanto quel “comunque sarebbe inutile, perché tanto lui continuerebbe a…”, quanto il poter diventare noi stessi diversi nel come ci sentiamo rispetto alla situazione, o dal come ce ne lasciamo coinvolgere, da come la affrontiamo. Ma non solo: non possiamo essere sempre sicuri di come gli altri si comporteranno, o di come le situazioni tanto non cambieranno, fino a che non lo sperimentiamo!