Burn out e stress lavoro correlato
Lo stress lavoro correlato è un tema di grande attualità in questo difficile momento, in cui la Pandemia ha trasformato moltissimi posti di lavoro in postazioni di lavoro da casa.
Per “job design” si intende la descrizione dei compiti da svolgere all’interno di una specifica mansione, altrimenti definiti come “responsabilità” che appartengono a quel ruolo.
Poiché in cima alla lista delle priorità aziendali si attesta il convogliare di quanto più lavoro/produzione possibile al più basso costo possibile, la salute psicologica dell’impiegato non necessariamente viene presa in adeguata considerazione; non si investe in un sistema di automazione per lo svolgimento di compiti tediosi e ripetitivi, se i costi per l’investimento tecnologico (sia esso software o macchina industriale) superano i costi della manodopera umana, che attualmente è ai minimi storici. Numerosi impieghi nelle amministrazioni sia pubbliche che private prevedono un job design in cui l’estrema parcellizzazione delle mansioni rende gli impiegati assoggettati alle esigenze della burocrazia e del sistema produttivo. Per non parlare del fatto che l’attuale mercato del lavoro richiede che i dipendenti abbiano un elevato livello di istruzione per svolgere compiti molto basici all’interno dei sistemi operativi aziendali, dove la creatività, il valore aggiunto e l’autonomia del singolo sono quasi inesistenti.
Probabilmente è proprio questo uno dei principali motivi per cui è a partire dall’epoca moderna che abbiamo iniziato a sentir parlare di “burn-out” o stress lavoro correlato.
Perché ci si ammala quando il lavoro cala?
La sindrome da burnout si manifesta con improvvisi ed invalidanti sintomi psicofisici (senso di angoscia, forte spossatezza fisica, perdita di interesse per le attività quotidiane, senso di immobilità, sintomi gastrointestinali, depressione e rifiuto di alzarsi dal letto…). Sembra tuttavia paradossale come il crollo avvenga spesso proprio nel momento in cui la quantità di lavoro diminuisce improvvisamente.
Quando siamo costretti per un periodo di tempo prolungato a svolgere una mole di lavoro eccessiva, ci sentiamo in un primo momento sopraffatti. Pian piano però, l’organismo si abitua allo stress, e quanto più c’è da fare, tanto più ci si sforza di fare. Quando poi i compiti da svolgere sono particolarmente alienanti, monotoni e slegati tra loro, il cervello cerca di adattarsi alla pressione come meglio può.
A lungo andare, si crea un meccanismo di “ricompensa patologica” ogni volta che si riesce a portare a termine un singolo compito. Malgrado l’aridità delle mansioni lavorative, il senso di aver completato qualcosa (qualsiasi cosa) è l’unica piccola soddisfazione che il nostro cervello si abitua ad avere per mantenere la sua efficienza: è in questo modo che si innesca in alcuni casi una vera e propria dipendenza da lavoro, in cui per quanto si possa odiare quello che si fa, si cerca di completare quanti più compiti possibili; si finisce per essere sempre gli ultimi a lasciare l’ufficio, ci sembra che l’azienda non possa andare avanti senza il nostro ultimo contributo di quella giornata, mentre si avverte un grosso senso di colpa se si lasciano cose in sospeso da completare il giorno dopo. Un circolo vizioso che porta ad aumentare sempre di più il carico di lavoro giornaliero, malgrado il crescente senso di oppressione e spossatezza che ne deriva.
Questo accade perché, non avendo altre fonti di soddisfazione, il nostro senso di valore e di efficacia personale si alimentano unicamente dalla quantità di compiti che riusciamo a portare a termine nell’arco della giornata. Poiché molto spesso non ne siamo consapevoli, si rischia di confondere l’esagerato senso di responsabilità che ci sembra di provare verso il nostro lavoro con il bisogno che abbiamo di sentirci importanti. Più avvertiamo che questo bisogno è appagato dallo svolgere una mole di lavoro ai limiti della sostenibilità, meno ci concediamo il tempo per ricaricarci facendo quello che ci piace.
Quando finalmente il carico di lavoro si riduce grazie a nuove assunzioni oppure ad una riorganizzazione del lavoro, avvertiamo un forte senso di frustrazione e di inutilità, proprio per il fatto che abbiamo più tempo a disposizione per riflettere su come ci sentiamo rispetto al contenuto dei compiti che svolgiamo, mentre non riceviamo più quella magra ricompensa del senso di efficacia derivante dalla grande quantità di cose portate a termine. La nostra attenzione di sposta cioè dalla “quantità” alla “qualità” di quello che facciamo ogni giorno, per cui ci sentiamo improvvisamente soffocati dalla noia, dalla monotonia e dall’insensatezza di ciò che facciamo.
Altre volte, la fatica viene a lungo sostenuta dall’aspettativa di un riconoscimento o di un avanzamento di carriera, che quando non arriva, scatena un forte stato di prostrazione e di profonda delusione, anche a fronte di quanto si è investito in termini di sforzo e impegno.
L’aiuto dello Psicologo
In questi casi l’aiuto dello Psicologo è quello più indicato sia per ridurre la sintomatologia ansiosa e somatica nell’immediato, sia per trovare nuovi e più appaganti significati alla propria esistenza.
Attraverso gli strumenti della Psicodiagnostica e del Colloquio Clinico, lo Psicologo mette in luce le motivazioni fondanti la struttura di personalità del paziente, scoprendo insieme a lui i suoi bisogni e le sue reali aspirazioni.
Allo stesso tempo, lo Psicologo indaga le possibili dinamiche disfunzionali che possono essersi instaurate nelle relazioni interpersonali, per poi elaborare una strategia di cambiamento.
Il cambiamento può comprendere non solo la crescita personale, intesa come migliore conoscenza di sè, maggiore autostima ed assertività, padronanza delle proprie emozioni, ma anche la progettazione di una crescita professionale.