Covid 19 – sindrome del prigioniero o regressione antropologica?
A ormai oltre due mesi dall’inizio della quarantena, il Governo ha dato il via da qualche giorno alla riapertura di pressoché tutte le attività, seppur con obbligo di rispetto delle norme di sicurezza volte al contenimento del virus.
È un graduale ritorno alla normalità, che tuttavia non sembra per tutti essere vissuto allo stesso modo. Si moltiplicano gli articoli in cui psicologi, sociologi e psichiatri analizzano l’impatto del virus e del distanziamento sociale sulla salute mentale della popolazione. La maggioranza degli articoli degli ultimi giorni sembrano concentrarsi nel riportare tra le conseguenze psicologiche del prolungato isolamento la cosiddetta “sindrome del prigioniero” (anche conosciuta come “sindrome della capanna”), ovvero la paura di uscire di casa, che interesserebbe finora almeno un milione di italiani (https://www.ilgiornale.it/news/salute/che-cos-sindrome-capanna-1862193.html) .
Pur non essendo riconosciuta come una vera e propria patologia, la sindrome del prigioniero (cabin fever in inglese) è un temporaneo stato psicologico riscontrato spesso nelle persone che hanno subito lunghi periodi di isolamento in spazi chiusi o luoghi di prigionia. Alcuni studiosi descrivono gli stessi sintomi nella depressione stagionale, in inglese S.A.D., “Seasonal Affective Disorder” (Rohan, Kelly J., 2008), molto diffusa nei paesi nordici, dove il clima invernale costringe a trascorrere lunghi periodi di isolamento in casa.
I “sintomi” più diffusi sono la paura di lasciare il proprio rifugio, disturbi di memoria, ansia, insonnia o ipersonnia, pensieri depressivi, fino a sospettosità e paranoia verso gli altri. Anche se sicuramente non della stessa gravità, questa sindrome può per alcuni aspetti apparire simile all’agorafobia.
Alcune considerazioni contestuali
Tuttavia, ridurre la causa di questo diffuso senso di disagio psicologico alla “sindrome del prigioniero” rappresenta, a mio avviso, un’eccessiva semplificazione del macro fenomeno: la sua complessità meriterebbe infatti una discussione più ampia.
Con le dovute eccezioni, come il livello di ansia e depressione già presenti nell’individuo prima della pandemia, i “sintomi” dovrebbero essere spiegati analizzando molteplici fattori concomitanti generati dagli improvvisi cambiamenti nello stile di vita apportati dall’epidemia.
la paura del contagio
Certamente, la paura di un nemico tanto spietato quanto invisibile è più che mai giustificata. Nonostante il Governo abbia permesso la riapertura di quasi tutte le attività pubbliche a patto che vengano rispettate le norme di sicurezza, è chiaro che il terribile virus è ancora presente e molto contagioso. La paura di contagiare se stessi o i propri cari può in molti casi agire da forte deterrente dall’uscire di casa, specie quando si soffre di disturbi d’ansia o ipocondriaci. Ma la paura del contagio può non essere l’unica ragione…
L’emergenza sanitaria ed il conseguente confinamento hanno innanzitutto spostato il focus delle priorità degli individui dall’affermazione nella società all’approvvigionamento dei beni primari e alla cura della casa: file al supermercato e davanti alle farmacie, giornate intere trascorse a sanificare gli ambienti di casa, preparazione di pasti abbondanti e gustosi per tutta la famiglia, fare il bucato, riorganizzazione degli armadi, realizzazione di piccole ristrutturazioni di casa… mentre prima della pandemia tali preoccupazioni occupavano solo una piccola parte dei pensieri giornalieri, l’arresto di tutte le attività sociali e lavorative ha enormemente dilatato il tempo e l’energia psichica impegnata in queste attività “primordiali”.
il cervello limbico
Le Neuroscienze e la Neuropsicologia hanno dimostrato come il cervello umano contemporaneo sia il risultato di una stratificazione di diverse aree corticali che si sono sovrapposte nell’arco dell’evoluzione. Il primo “strato” del cervello è costituito dal cervello rettiliano, localizzato nel tronco encefalico. I neuroni situati in quest’area sono attivati nella regolazione delle funzioni fisiologiche: sono in sintesi quelli coinvolti nel generare gli stimoli della fame e della sete.
Nel successivo stadio evolutivo, il cervello umano si è evoluto a sviluppare la parte di corteccia definita cervello limbico, la sede delle emozioni primarie e degli stimoli a quei comportamenti istintivi tipici dei mammiferi, quali la ricerca di un rifugio, la ricerca di accudimento e di un partner a cui legarsi a lungo termine, la custodia del focolare domestico, la cura della prole. Tali stimoli sono quelli che attivano l’individuo a ricercare una gratificazione immediata.
Solo nell’ultimo stadio del processo evolutivo, l’uomo ha sviluppato la parte del cervello definita neo-corteccia. Quest’area è adibita alle “funzioni superiori” dell’uomo: all’attenzione focalizzata, alla razionalità, all’astrazione, ai principi morali, alla ricerca di significato, al perseguimento di obiettivi a lungo termine. In questa zona sono localizzati inoltre i neuroni che conferiscono la capacità di comprendere i pensieri e le emozioni degli altri, di spostare il nostro punto di vista per comprendere i comportamenti dell’altro: quello che noi psicologi definiamo “decentramento”.
Lo sviluppo stadiale del cervello umano è stato reso possibile dal suo incontro con le sfide e le opportunità dell’ambiente, sempre più complesse e diversificate, oltre che dal confronto con l’altro. Contrariamente a quanto accade normalmente nelle società moderne, il drastico ritorno ad una quotidianità povera di relazioni sociali e di esperienze cognitive complesse, vede impegnato molto di più l’area del cervello limbico a scapito della neo-corteccia. Questo spiega ad esempio l’elevata emotività e la mancanza di riflessione che abbiamo osservato in alcuni comportamenti apparentemente inspiegabili durante la pandemia. Un’ulteriore testimonianza dell’iperattivazione del cervello limbico è l’aumento dei comportamenti di ricerca di gratificazioni primitive ed immediate registrati durante il confinamento: molte persone hanno lamentato un forte aumento ponderale durante la pandemia, oppure un aumento della consumazione di alcolici e di dolciumi, tutti segni del calo della capacità di autocontrollo nel regolare l’alimentazione. Oltre a ciò, nei mesi di quarantena si è registrato un forte aumento del consumo di materiale pornografico in rete .
Allentamento della pressione sociale
Molti di coloro che hanno lavorato da casa o che hanno perso il lavoro hanno visto ridursi drasticamente le opportunità che li spingevano ad uscire, riscoprendo nella propria abitazione il posto sicuro in cui è disponibile tutto ciò di cui si ha bisogno. Per alcuni soggetti, il confinamento forzato tra le mura domestiche ha avuto il vantaggio di ridurre gli oneri dettati dalle norme sociali, avvertiti spesso come costrittivi: il dover per forza essere cordiali con tutti, il doversi vestire adeguatamente per andare al lavoro, il dover essere puntuali agli appuntamenti, il doversi spostare per raggiungere il posto di lavoro, il dover sempre essere all’altezza delle aspettative di amici, colleghi, capoufficio; fino alle costrizioni nelle scelte di vita più importanti: le regole di mercato decidono troppo spesso quale percorso di studi e quale lavoro cercare, anziché essere liberi di scegliere in base alle proprie inclinazioni e talenti. Da tutto questo ci si è momentaneamente “sganciati” durante la quarantena, in cui la regressione ad uno stile di vita più semplice e primitivo ci ha fatto riscoprire una nuova libertà a cui non eravamo abituati : il risveglio del cervello limbico ci ha messo in contatto con le emozioni più autentiche.
amicizie sempre a portata di click
La tecnologia ha assunto un ruolo preponderante durante la pandemia, in maniera particolare nel mantenimento delle relazioni affettive. Per coloro che sono in grado di usarla, essa ha reso possibile il contatto con amici e parenti che durante la pandemia si è persino intensificato, vista anche la maggiore disponibilità di tempo. Non avendo più bisogno di uscire per incontrare contatti, ecco che le mura di casa diventano ancora di più il luogo sicuro dove si ha già tutto ciò di cui si ha bisogno. È come se il week end si fosse dilatato praticamente a tutta la settimana.
i rischi del prolungato isolamento
Le motivazioni finora citate, unitamente agli esercizi pubblici con accessi contingentati, riducono di molto gli stimoli ad uscire di casa. Per chi a due mesi dal confinamento sente di non voler abbandonare la sicurezza delle mura domestiche, il rischio è di chiudersi sempre di più in se stessi, perdendo di vista quel bisogno di realizzazione personale proprio della specie umana, che si esplica nell’agire sull’ambiente esterno per dare un senso alla propria vita. Negli individui più vulnerabili, la mancanza di stimoli e di interesse per la società potrebbero cronicizzarsi, sfociando nella depressione. C’è il rischio di diventare miopi, di accorciare il raggio d’azione della propria esistenza, di perdere quella capacità creativa che ci permette di pensare, pianificare e plasmare il nostro futuro: tutte quelle funzioni superiori appartenenti all’area neo-corticale del cervello, a cui dovremmo fare appello per risollevarci da questa gravissima crisi economica. Le preoccupazioni economiche rappresentano un grave fattore di rischio per l’isolamento sociale, da cui genera poi il senso di scoraggiamento, la sfiducia negli altri, l’abbassamento dell’autostima e del senso di auto efficacia percepita. Proprio il senso di auto efficacia fa riferimento alla fiducia che il soggetto sente di avere nelle sue capacità di riuscire a cambiare la propria situazione: se questo viene meno, le sue probabilità di risalita calano drasticamente.